Africa addio. I caschi blu lasciano il Congo.

È iniziato il 28 febbraio, il ritiro ufficiale della Monusco (Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo). Dopo una serie di fallimenti nella gestione della sicurezza del territorio la missione di pace delle Nazioni Unite, istituita nel 2005 con il mandato di proteggere i civili e mantenere la sicurezza nell’area, ha trasferito il comando alla polizia nazionale congolese, iniziando ufficialmente il processo di smobilitazione che si concluderà entro il 31 dicembre 2024 e metterà fine alla presenza della missione nel paese, durata 25 anni. Attualmente sono circa 15mila i peacekeeper Onu ancora dispiegati nelle tre province più problematiche della regione, Sud Kivu, Nord Kivu e Ituri.

Un ritiro “ordinato, responsabile e sostenibile”, la decisione di ritirare i caschi blu arriva in seguito a un’esplicita richiesta del governo congolese e del presidente Felix Tshisekedi, appena confermato alla guida del paese in un’elezione fortemente contestata.

Tshisekedi ha criticato la missione che, come confermano numerose testimonianze dei residenti locali, non è mai riuscita a contrastare veramente gli oltre 100 gruppi armati che infestano l’est del Congo, né a proteggere i civili dalle violenze incrociate.

L’uscita di scena dei peace-keepers lascerà maggiore insicurezza, se possibile, in uno dei teatri più instabili dell’intero continente africano. Il loro ritiro avviene infatti in un contesto di escalation delle violenze nelle regioni orientali della RDC, epicentro di una guerra che affonda le sue radici nella fine del genocidio in Ruanda nel 1994. Da allora diversi accordi di pace hanno di fatto cronicizzato il conflitto, ma non sono riusciti a porre fine alle attività della moltitudine di gruppi militari attivi nella regione, con il sostegno più o meno esplicito dei paesi vicini, Ruanda in primis. Oggi si teme che il vuoto di potere determinato dall’assenza delle truppe internazionali possa rafforzare le sigle di combattenti e la miriade di milizie, anche filo governative, che imperversano nella zona terrorizzando le popolazioni civili e sfruttando a proprio vantaggio le smisurate risorse minerarie della regione, il cui sottosuolo contiene il 70% delle riserve di coltan, cobalto, bauxite ed altre terre rare cruciali per la transizione energetica. A causa delle violenze, il paese conta circa 7 milioni di sfollati interni, il numero più alto al mondo.

Le tensioni tra il presidente Tshisekedi e il suo omologo ruandese, Paul Kagame, si sono riaccese nel 2022 quando il dissolto gruppo armato M23 è riemerso sulla scena e, con una serie di attacchi violenti, ha conquistato in poche settimane quattro città del Nord Kivu. Lo scorso ottobre un cessate il fuoco faticosamente raggiunto a Nairobi è andato in pezzi e Kinshasa ha ripreso ad accusare il Ruanda di sostenere l’M23. Durante un appuntamento elettorale a Goma, la capitale del Nord Kivu, Tshisekedi ha accusato il presidente ruandese Paul Kagame di sostenere l’M23 e definendolo “Hitler” ha promesso di liberare la RDC dal gruppo a costo di muovere guerra al paese vicino. Come sempre Kigali ha negato ogni addebito e accusato a sua volta Kinshasa di armare a sua volta milizie per destabilizzare i territori di confine. Ormai da tempo però, anche le Nazioni Unite muovono accuse contro il Ruanda e diversi gruppi di esperti hanno presentato prove del coinvolgimento di Kigali nel finanziare e sostenere l’M23. D’altro canto, è emerso che alcuni membri dell’esercito congolese hanno stretto alleanze ad hoc con gruppi armati locali responsabili di massicce violazioni e crimini di guerra, per combattere i ribelli.

Anarchici Anonimi

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